Posso, posso e potrò ancora

Quante volte davanti alle novità o alle difficoltà ci siamo detti: «Non posso!», «Non ci riesco, è più forte di me!», «Non sono in grado!», «Tanto so già come andrà a finire», «Ci ho già provato in passato, non sono capace!» . 
A volte i nostri pensieri, ancorati a passate esperienze di fallimento, ci fanno sentire che le cose non possono cambiare, che noi non possiamo cambiare. Ci sentiamo falliti per aver fallito, non ci diamo un’altra opportunità, una seconda chance. I nostri pensieri condizionano le nostre azioni: ciò che pensiamo, magicamente, diventa quella che viene chiamata  “la profezia che si autoavvera” e viviamo condizionati dal ricordo di una parte di noi che non esiste più e che non ce l’aveva fatta. Il fallimento diventa, così un’onta, una macchia indelebile, non rimanendo ciò che è realmente: un tentativo non riuscito
 
In realtà, nel tempo, cresciamo, facciamo nuove esperienze, scopriamo capacità e talenti prima sconosciuti, ci liberiamo da condizionamenti, credenze limitanti e valori che non ci appartengono, ma che qualcuno ci ha trasmesso e che, forse, non ci hanno permesso di riuscire in passato.  
Magari, adesso, siamo capaci di fare tante nuove cose e non ne siamo consapevoli. 
Niente ci trattiene nel provarci di nuovo, se non noi stessi. 
 
Vogliamo raccontarvi una storia: 
 
“Quando ero piccolo adoravo il circo, mi piacevano soprattutto gli animali. Ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini. Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… Ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena era grossa e forte, mi pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.
Era davvero un bel mistero.
Che cosa lo teneva legato, allora?
Perché non scappava?
Quando avevo cinque o sei anni nutrivo ancora fiducia nella saggezza dei grandi. Allora chiesi a un maestro, a un padre o a uno zio di risolvere il mistero dell’elefante. Qualcuno di loro mi spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato. Allora posi la domanda ovvia: “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”.
Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.
Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto, e ci pensavo soltanto quando mi imbattevo in altre persone che si erano poste la stessa domanda.
Per mia fortuna, qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta:
l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.
 
Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto.
Sono sicuro che, in quel momento, l’elefantino provò a spingere, a tirare e sudava nel tentativo di liberarsi.
Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui.
Lo vedevo addormentarsi sfinito, e il giorno dopo provarci di nuovo, e così il giorno dopo e quello dopo ancora... Finché un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l’animale accettò l’impotenza rassegnandosi al proprio destino.
L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché, poveretto, crede di non poterlo fare. Reca impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata subito dopo la nascita.
E il brutto è che non è mai più ritornato seriamente su quel ricordo.
E non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più…
 
[…] Siamo un po’ tutti come l’elefante del circo: andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti che ci tolgono la libertà.
Viviamo pensando che “non possiamo” fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, quando eravamo piccoli, ci avevamo provato ed avevamo fallito.
Allora abbiamo fatto come l’elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio: non posso, non posso e non potrò mai.
Siamo cresciuti portandoci dietro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli, perciò non proviamo più a liberarci del paletto.
Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppi e facciamo cigolare le catene, guardiamo con la coda dell’occhio il paletto e pensiamo: non posso, non posso e non potrò mai […].
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”
(Tratto da "Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere" di Jorge Bucay)

 
(Roberta Postorino)
 

Aggiungi un commento

CAPTCHA
Questo test è per confermare che non sei un programma ed evitare così lo spam.
CAPTCHA con immagine
Inserire i caratteri mostrati nell'immagine.

Potresti essere interessato anche a questi articoli:

Siamo ciò che pensiamo

- "Chi sono io?", chiese un giovane a un maestro di spiritualità.
"Sei quello che pensi!", rispose il saggio.
"Te lo spiego con una breve storia:

Ultimi commenti nel blog